11
Aprile
2018
LA CASCATA NEL RISORGIMENTO. UN VIAGGIO FONDAMENTALE PER MASSIMO D’AZEGLIO
Massimo Taparelli, marchese d'Azeglio (Torino 1798-1866) ebbe come noto un ruolo importante nella vita politica del suo tempo (primo ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852), diventando però ancora più celebre come scrittore di romanzi storici: fama immortale gli diede l’Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta (pubblicato nel 1833), il quale ottenne immediatamente un grandissimo successo editoriale.
Aspetto invece meno noto ai più riguarda il suo legame con il mondo dell’arte figurativa: infatti d’Azeglio fu anche un notevole pittore di soggetti storici e di paesaggi, nonché intimo di grandi artisti suoi contemporanei come Francesco Hayez che eseguì un suo ritratto in tarda età. Proprio in questo periodo è in mostra un suo superbo ritratto giovanile attribuito a Giuseppe Molteni [FIG. 1], acquisito dalla Galleria civica d'arte moderna e contemporanea di Torino. Della sua predilezione per la pittura paesaggistica parlò egli stesso nella sua autobiografia, pubblicata postuma: “quando tutto dovrebbe spirare indipendenza, azione spontanea, libera ed originale iniziativa, la mia povera arte del paesista ha da essere servile piaggiatrice, copia di copia di una natura che non è la sua e che ne è lontana le mille miglia” (Massimo d'Azeglio, I mei ricordi, 1867).
Malgrado, dunque, si sentisse incapace per difetto assoluto di cogliere e riprodurre la bellezza del mondo naturale, d’Azeglio si cimentò ripetutamente in quest’esercizio rappresentativo, com’è splendidamente testimoniato dai disegni e dai bozzetti conservati presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe della già citata GAM di Torino. Questi studi preparatori, presi dal vero, erano indispensabili fonti d’ispirazione per i paesaggi di sfondo nei quali ambientare episodi di soggetto storico e romanzesco. Ad esempio nel dipinto La morte del conte Josselin di Montmorency presso Tolemaide in Palestina (1825), si nota come il paesaggio sia un elemento preponderante nell’economia compositiva della scena [FIG. 2].
In particolare, spicca la presenza di una cascata, certamente immaginifica, soprattutto se si tiene conto dell’ambientazione geografica mediorientale. Certo il d’Azeglio avrà tratto ispirazione per la cascata non da un viaggio in Terra Santa, bensì da altri luoghi da egli realmente visitati. Possiamo affermare con certezza che l’ispirazione per questa cascata gli sia stata fornita dalla visione della Cascata delle Marmore, dal momento che è stato rintracciato qualche giorno fa presso una storica struttura alberghiera romana, un acquerello firmato dall’artista piemontese che raffigura, senz’ombra di dubbio, la caduta del Velino nel fiume Nera ripresa dal basso, dall’altezza dell’odierno piazzale Byron. Un acquerello di esecuzione rapida, dal tratto guizzante, ma tutto sommato tanto preciso e dettagliato da rendere l’identificazione con la cascata umbra davvero inequivocabile. Quest’acquerello è qui pubblicato per la prima volta in assoluto [FIG. 3], come un’esclusiva che speriamo sia apprezzata dagli amanti della pittura di paesaggio e non soltanto dagli appassionati di storia locale.
Quando sia stato eseguito però, è difficile stabilirlo. Il marchese viaggiò più volte dalla sua Torino in direzione di Roma e in occasione di tali viaggi colse l’occasione per visitare l’entroterra laziale e umbro numerose volte, come testimoniano sia le sue memorie autobiografiche sia il suo epistolario dove più volte è menzionata Terni. Certamente però l’ipotesi più affascinante è quella che si tratti di un’opera giovanile, testimonianza di un viaggio segnante per la formazione artistica del d’Azeglio e in qualche modo determinante per tutti i successivi sviluppi della sua multiforme personalità. È questa l’ipotesi che in definitiva suggerisco ai lettori, affinché sia da sprono per i ricercatori, sempre più numerosi, che oramai si occupano della fortuna iconografica del territorio dell’Umbria meridionale. Bisogna proseguire le ricerche, perché esse non sembrano destinate ad esaurirsi in tempi brevi, come gli altri articoli pubblicati in questa rubrica ci paiono dimostrare in maniera inequivocabile.
Nel piccolo e introvabile catalogo dell'esposizione intitolata Massimo d’Azeglio pittore (Castello di Costigliole d'Asti, aprile - giugno 1998) si legge infatti che “Massimo d'Azeglio aveva esordito nel 1820 a Torino nell'esposizione di pittura e di scultura tenutasi nel Palazzo dell'Università, il cui catalogo al n. 171 cita: Tapparelli d'Azeglio, Cavalier Massimo / Cascatella della Nera nella macchia di Terni, su tela". In sostanza, l’opera con cui d’Azeglio, a 22 anni, aveva debuttato ufficialmente come pittore era un dipinto -purtroppo non rintracciato sin qui- dedicato incredibilmente proprio alla nostra amata cascata. Un pendant di dipinti, in collezione privata, esposti nella circostanza della mostra di Costigliole d’Asti, raffiguranti un Paesaggio lacustre e un Paesaggio fluviale sono stati poi messi ipoteticamente in relazione con quello della Cascata delle Marmore, raffigurando verosimilmente il fiume Nera e il lago di Piediluco.
Sarà opportuno ricordare inoltre il particolare legame di amicizia stretto fra d’Azeglio e il romagnolo Giambattista Bassi. Infatti nello stesso fatidico anno 1820, il pittore di origine ravennate eseguiva a Roma, su commissione di una nobildonna inglese, Lady Bentinck, una tela intitolata Cascata delle Marmore presso Terni, riapparsa da poco sul mercato antiquario e acquistata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni nel 2013 [FIG. 4]. Questa tela costituiva il primo saggio della sua celebrata abilità nel riprodurre mimeticamente gli effetti delle cadute d’acqua. E infatti proprio d’Azeglio testimoniò anni dopo come Bassi fosse diventato famoso eseguendo il soggetto marmorese in numerose versioni. Il dipinto, firmato e datato, è solo una delle più di 60 rappresentazioni della cascata delle Marmore realizzate da Bassi, ad attestare la straordinaria fortuna figurativa di questo luogo e a soddisfare le richieste di un mercato turistico che lo annoverava fra le tappe imprescindibili del viaggio in Italia. Questi quadri di Bassi, tra l’altro, furono talmente ammirati dai contemporanei da venire perfino celebrati nei versi di un sonetto del poeta reatino Angelo Maria Ricci, composti mentre Bassi dipingeva:
Bassi, pingesti la dirotta balza
e il Velin che lasciato all’onde il freno
disdegnoso precipita trabalza
per aver pace della Nera in seno:
l’onda che l’onda vorticosa incalza
né per volger di tempo unqua vien meno
il bianco spruzzo che or s’adima or s’alza
il circoscritto azzurro e il ciel sereno.
Un Re, cui l’Etna ed il Vesuvio onora
or pingi ospite Nume in quelle sponde,
ch’io di quel giorno mi ricordo ancora;
e a quell’aspetto (poiché al sol risponde)
l’iride stessa tornerà talora
ne’ tuoi colori a coronar quell’onde
(Angelo Maria Ricci, “Al celebre pittore Sig. Cav. Bassi mentre pingea con meraviglioso incanto la caduta delle Marmore o sia del Velino onorata già nello scorso luglio dalla presenza di S. M. Ferdinando II Re delle due Sicilie”, 1833).
Numerose opere anonime con il soggetto ternano sono transitate negli ultimi anni in gallerie e antiquari, e viene allora da chiedersi se tra una di queste non si possa riconoscere il pennello, meno virtuoso ma altrettanto realistico, di d’Azeglio [FIG. 5]. Ne deriva comunque, in definitiva, che l’incontro di d’Azeglio con la meraviglia naturale umbra non fu affatto casuale, e forse proprio da quel primissimo incontro ne sarebbe discesa l’idea stessa di maggiore successo nella vita di d’Azeglio: quella della Disfida di Barletta. Potrebbe essere accaduto infatti che, nel corso di un giovanile soggiorno a Terni, certamente precedente al 1820 -anno dell’esposizione del dipinto riproducente la cascata- d’Azeglio abbia appreso notizie riguardanti Ludovico Aminale.
Aminale, per chi non lo sapesse, è stato uno dei tredici cavalieri che parteciparono alla Disfida di Barletta, nel 1503, sfidando altrettanti cavalieri francesi. Secondo la tradizione locale egli sarebbe nato nel 1477, in Via dell'Arringo, dove botteghe di falegnami, fabbri e carpentieri erano frequentissime. Infatti Ludovico avrebbe dovuto apprendere il mestiere di falegname nella bottega paterna, ma passò invece la giovinezza con uno zio, scudiero degli Orsini, e crebbe nella passione per le armi e dei cavalli, avviandosi alla carriera di soldato di ventura. Proprio nel quartiere dove trascorse l’infanzia, la strada parallela a Via dell’Arringo è stata ad egli intitolata. E chissà che d’Azeglio, prima di giungere in prossimità della Cascata, non abbia pernottato a Terni in qualche locanda dalle parti del Duomo, e sebbene allora Via Aminale non si chiamasse ancora così, è probabile che qualche cicerone del posto gli abbia proprio indicato la via dove, per l’appunto, si riteneva fosse nato e cresciuto uno dei tredici eroi che in Puglia avevano respinto, per amor di patria, l’invasore straniero.
Per un ragazzo che allora poteva solo che anelare utopicamente al ritorno di eroi leggendari in grado di condurre il paese all’indipendenza, un racconto del genere suscitò, chissà, così tanto interesse che non avrebbe mai più potuto dimenticare né il nome e la storia di Aminale né la superlativa bellezza ammirata poco lontano dal centro cittadino.
* Ringrazio vivamente il sig. Emanuele Salvati di Terni, appassionato di storia locale, per avermi segnalato l’esistenza dell’acquerello di d’Azeglio qui pubblicato per la prima volta, da egli identificato presso un hotel di Roma, sul quale torneremo a fare indagini più approfondite. Colgo pure l’occasione per ricordare, a un anno dalla sua prematura scomparsa, il comune amico Giuliano Felici, che vorremmo tanto avere ancora con noi, per fotografare e riprendere opere d’arte e paesaggi con il suo sguardo formidabile, capace di intercettare la bellezza e proprio per questo, di non riuscire a vivere più nel timore di perderla.
Saverio Ricci
Storico dell’arte e guida turistica dell’Umbria
07
Dicembre
2017
Il travertino di Marmore e la sua fama millenaria: dalla Naturalis Historia di Plinio alle Vite del Vasari
“In exitu paludis Reatinae saxum crescere”, ovvero “Dove finisce la palude Reatina cresce la pietra”, lasciò scritto Plinio il Vecchio, insigne naturalista dell’antichità, autore della monumentale Naturalis Historia. Per capire la sua affermazione bisogna sapere che Plinio era un geologo ante litteram, animato da così tanta curiosità che morì intossicato dai fumi del Vesuvio durante la celeberrima eruzione del 79 d.C. che distrusse Pompei ed Ercolano; attratto dallo straordinario fenomeno, Plinio decise infatti di avvicinarsi in barca alla zona interessata per poter osservare meglio l’eruzione e passò la notte a Stabia nella villa di un amico, dove però trovò la morte a causa dei gas irrespirabili.
La pietra di cui scrisse Plinio, che egli aveva bene inteso formarsi spontaneamente attraverso un processo di precipitazione di carbonato di calcio (calcare), di cui è ricca l’acqua del Velino, sarebbe stata tuttavia confusa, dagli abitanti del luogo, con il marmo. È quindi proprio a causa di quest’errore storico che la Cascata deve il toponimo con il quale è diventata famosa in tutto il mondo. Il nome stesso della zona, o meglio della rupe calcarea da cui il fiume Velino precipita, deriva pertanto dal latino Marmor e infatti Marmore dev’essere inteso come caso locativo del sostantivo da cui deriva, equivalente nell’italiano contemporaneo al complemento di stato in luogo. In definitiva, è traducibile letteralmente come “presso il marmo”. Per molti secoli, pertanto, la Cascata venne di fatto identificata in quanto vicina alle cave di travertino. Le quali, conseguentemente, dovevano essere altrettanto famose, se non di più, della cascata stessa.
Ma vediamo di capire meglio le peculiarità di questa pietra: si tratta di un travertino litoide, caratterizzato da una consistenza spugnosa e da ampie vacuolarità; da qui l’altro termine con cui è noto localmente, ovvero pietra sponga, dal latino Spongia=Spugna. Molto usata fin dall’antichità sia a Terni che Rieti, ovvero i due principali centri abitati più vicini alla Cascata, la pietra calcarea di Marmore ha trovato amplissimo impiego come materiale da costruzione fino agli anni Settanta del XX secolo, ad esempio nei numerosi edifici progettati dall’architetto romano, ma ternano d’adozione, Mario Ridolfi. Questo tipo particolare di travertino era molto apprezzata da Ridolfi, essendo una pietra leggera e di agevole lavorabilità appena estratta, ma che al contrario acquista indurimento e compattezza con l’esposizione all’aria. Per questi motivi è ipotizzabile che non appena il ciglione del pianoro marmorese, che era continuamente sommerso dall’acqua stagnante del Velino, venne liberato, gli antichi dovettero iniziare a estrarne blocchi da costruzione, ammirandone la durezza e il colore bianco. Caratteristiche riconosciute da molti studiosi; questa ad esempio è la descrizione che ne fece l’erudito locale Luovico Silvestri: “Tutto il piano delle Marmore è formato da coteste concrezioni calcaree, tartarose, stalattitiche, alabastrine, le quali danno un eccellente materiale per fabbriche, poroso, leggero, facile a tagliarsi ed a ridursi a quella foggia migliore che piaccia, appena estratto dalla cava, ma al contatto dell’aria riceve durezza lapidea e di massima solidità” (Memorie storiche di Terni, Rieti, 1856).
I monumenti dell’antica Interamna Nahars (il nome del municipio ternano di età romana) risultano impiegare massicciamente il travertino di Marmore, segno evidente dello sfruttamento intensivo delle cave a partire fin dal III sec. a.C. Grandi blocchi di forma grezza e irregolare sono facilmente riconoscibili nel tessuto murario di Ponte detto del Toro, vicino alla Cascata, e nell’ampio tratto delle Mura cittadine che ancora si erge in quella strada che un tempo giustamente recava il nome di Via delle Mura (titolazione che l’ufficio toponomastico ha cancellato senza motivo), tra piazza Briccialdi e l’ingresso al Parco “Gianfranco Ciaurro”. Senza considerare che altri tratti visibili sono inglobati nelle Mura medievali che dall’ingresso del parco proseguono fino a Viale della Rinascita: alcuni blocchi recano ancora incisi i marchi di cava, tra i quali certamente quella che estraeva la pregiata pietra sponga sul pianoro di Marmore.
Un paio di secoli dopo, si ritrova adoperata la medesima pietra sponga, ma in forma più raffinata, per ricavare i quadrelli (cubilia) che compongono la cortina in opus reticulatum dell’Anfiteatro Romano, così come per il paramento esterno del Teatro (tecnica muraria ancora evidente nei resti superstiti, oggi purtroppo degradatissimi, situati in Via del Pozzo).
Nel Medioevo, poi, la pietra marmorese, essendo estratta in loco e non obbligando dunque a costi dispendiosi per l’acquisto e il trasporto, era l’unico materiale da costruzione a cui si poteva fare ricorso in città e nei suoi immediati dintorni. La ritroviamo pertanto in tutti gli edifici di culto di fondazione medievale (le chiese ternane di San Salvatore, San Pietro, San Lorenzo, San Tommaso, San Cristoforo, San Francesco, San Marco, Sant’Alò, il monastero di San Benedetto in Fundis vicino Stroncone, la pieve di Santo Stefano nei pressi di Collescipoli, il Santuario di San Francesco a Piediluco, l’Abbazia di San Nicolò a San Gemini, ecc.) nonché nell’edilizia civile (le mura medievali, le case-torri, i palazzi più antichi del centro storico). Insomma, tutte le grandi opere, dai secoli della dominazione romana sino alla fine del Quattrocento, sono state realizzabili solo grazie ai ricchi giacimenti di pietra sponga distribuiti sia sulla rupe di Marmore che a valle. Esistevano infatti diverse cave, fra le quali una è ancora perfettamente riconoscibile in prossimità del Belvedere Superiore, lungo il Sentiero 5 dell’area turistico-escursionistica.
Un’altra miniera lapidea di analoga origine per precipitazione calcarea è ricordata dalle fonti nelle cavità naturali che circondano Cesi, dove lo scrittore tedesco Johann Jacob Volkmann ammirò “gocce solidificate che per la loro chiarezza assomigliavano al cristallo” (Notizie storico-critiche dell'Italia, 1770-71). Per antonomasia inoltre, anche le rocce calcaree utilizzate nella Valnerina settentrionale, ad esempio quelle utilizzate per la costruzione dell’Abbazia di Sant’Eutizio a Preci, sono denominate dagli storici dell’architettura pietre sponghe. Per secoli è stato in uso anche un altro vocabolo, ormai desueto, ovvero “tartaro”: viene così definito in natura la risultante della cristallizzazione del calcare sugli organismi vegetali come muschi e licheni che crescono in ambienti molto umili, quali laghi, paludi e cascate per l’appunto.
Illustrò con parole splendide l’esito di quest’azione del calcare un celebre letterato francese, il marchese de Sade: “ Si attribuisce all’acqua del Velino la capacità di pietrificare. Io lo credo, considerando la qualità delle pietre vermicolate che si vedono nella zona. Strappai alcune radici, e anch’esse mi parvero coperte da una sorta di tartaro di pietrificazione […]. Ai piedi della scala costruita per permettere di osservare la cascata di fronte, è stato praticato un buco nella roccia, attraverso il quale si scorgono in gran numero le radici degli alberi che la ricoprono, e che sono tutte pietrificate. Più in basso c’è un’altra specie di grotta, interamente formata dalle pietrificazioni delle radici degli alberi che coronano la montagna. Vi si distinguono a meraviglia le foglie completamente pietrificate. Bisogna osservare che a causa della pioggia ininterrotta formata dalla nube di vapore, le foglie degli alberi più vicini hanno un colore biancastro assai simile a quello delle foglie interamente pietrificate. Non si deve mancare di osservare questo fenomeno” (Viaggio in Italia, 1775-76).
Ritornando all’uso della pietra sponga nella storia, constatiamo che nel Cinquecento la fama del travertino di Marmore valicò i ristretti confini locali. Possiamo datare con esattezza questo storico traguardo, conoscendo infatti il giorno preciso in cui il celebre architetto fiorentino Antonio da Sangallo il Giovane (autore di edifici straordinari come Palazzo Farnese a Roma, Forte Michelangelo a Civitavecchia, il Pozzo di San Patrizio a Orvieto, la Rocca Paolina a Perugia), accettò l’incarico di Papa Paolo III Farnese che gli ordinava la costruzione di un nuovo emissario del fiume Velino, più profondo dell’allora in funzione Canale Reatino, per migliorare il deflusso delle acque ristagnanti nel sottostante fiume Nera. L’11 dicembre 1545 Sangallo era a Marmore per l’inizio dei lavori, e pochi mesi dopo inviò a Firenze, come dono a Cosimo I de’ Medici, futuro Granduca di Toscana, alcuni blocchi di “tartaro”, che è stato ipotizzato servissero per gli ornamenti rustici delle fontane del Giardino di Boboli, la cui costruzione veniva progettata dall’architetto Niccolò Tribolo proprio in quel periodo, dopo il passaggio di proprietà di Palazzo Pitti alla famiglia Medici (1549).
In una lettera datata 22 Marzo 1546 (il 3 agosto di quell’anno Sangallo sarebbe morto per la malaria contratta proprio mentre conduceva i lavori della Cava Paolina a Marmore), il geniale architetto toscano elogiava entusiasticamente le pietre che “si criano in le cadute delle aque [..] et più belle alla caduta dell’acqua del Lago Velino, la quale aqua si è grossa quanto mezo Arno, e cascha una altezza maggiore non è la cupole de Fiorenza, a uno luogo ditto le Marmora o vero Murmura, dal mormorio grande che fa ditta aqua, e in ditta aqua dove cascha si criano questi diaccioli di saxo, come ne vedrà questi che io mando” (la lettera fu pubblicata per la prima volta da Johann Wilhelm Gaye nel volume Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Firenze 1839-1840).
Possiamo affermare con certezza, dunque, che alla metà del secolo XVI nacque una moda, quella di ornare le fontane con rocce spugnose ricche di concrezioni calcaree, che venne portata avanti per oltre un secolo da artisti del calibro di Vignola, Ammannati, Buontalenti, Giambologna. E come dimostra l’ammirazione di un artista illustre quale il Sangallo, protagonista indiscusso dell’architettura cinquecentesca, i giardini manieristici proliferati a Roma, nella Tuscia e più tardi anche in Umbria, e nei quali furono progettate grotte e scogliere artificiali, i “tartari” utilizzati per la loro costruzione dovevano provenire essenzialmente dalle cave di Marmore, per ragioni meramente pratiche. Tale considerazione ha instillato, in chi scrive, una profonda curiosità per l’argomento. Pertanto ho condotto una breve e limitata ricerca di altre testimonianze in materia, pervenendo infine a una scoperta. Ho infatti rintracciato una menzione di grande interesse storico, finora mai messa in relazione con la storia della Cascata, che conferma e amplifica la testimonianza del Sangallo.
Scrisse infatti Giorgio Vasari, ovvero il più rinomato storico dell’arte di tutti i tempi, autore di fondamentali biografie degli artisti italiani da Cimabue a Michelangelo: “Siccome le fontane che nei loro palazzi, giardini ed altri luoghi fecero gli antichi, furono di diverse maniere […] così parimenti sono di diverse sorte quelle che hanno fatto e fanno tuttavia i moderni, i quali variandole sempre hanno alle invenzioni degli antichi aggiunto componimenti coperti di colature d’acque pietrificate, che pendono a guida di radicioni fatti col tempo, d’alcune congelazioni d’esse acque ne’ luoghi, dove elle son crude e grosse; come non solo a Tivoli, dove il fiume Teverone pietrifica i rami degli alberi ed ogni altra cosa che se gli pone innanzi, facendone di queste gomme e tartari, ma ancora al lago di Piè di Lupo [interpretato correttamene qui come Piediluco, n.d.A.], che le fa grandissime […] che pajono di marmi, di vitrioli e d’allumi” (Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568; la menzione è contenuta nella “Introduzzione di messer Giorgio Vasari pittore aretino alle tre arti del disegno cioè architettura pittura e scoltura”, in part. cap. V, “Come di tartari e di colature d’acqua si conducono le fontane rustiche, e come nello stucco si murano le telline e le colature delle pietre cotte”).
Se Vasari, al quale è notoriamente attribuita una visione toscano-centrica della storia dell’arte, ha voluto riservare un tale elogio alla pietra sponga ternana, ciò non può che significare che essa, quando lo storico aretino scriveva, era molto ricercata e se ne faceva impiego in importanti cantieri, non solo in campo architettonico, ma anche e non secondariamente, scultoreo. A leggere e rileggere queste affermazioni vasariane, si è indotti infine a credere che siamo del tutto ignari, al giorno d’oggi, dell’enorme fama che raggiunsero in passato le cave di Marmore. Da qui bisogna ora partire per compiere indagini bibliografiche e nelle fonti d’archivio, che poi potrebbero essere ulteriormente avallate da studi archeometrici, allo scopo di individuare in quali ville e giardini del XVI e XVII secolo architetti e scultori hanno utilizzato la locale pietra sponga.
Sarebbe interessante sapere ad esemio se fu impiegata nelle monumentali fontane della Villa medicea di Pratolino (odierna Villa Demidoff, in provincia di Firenze). Uno splendido bassorilievo su lamina d’oro e sfondo di ametista realizzato dal rinomato scultore fiammingo Giambologna (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti), ci mostra lo scultore presentare il modello di una fontana “rustica” a Francesco I de’ Medici per la villa di Pratolino…chissà se per l’occasione le cave di Marmore non fornirono la pietra per la colossale statua allegorica dell’Appenino ? Particolarità di questa scultura, che simboleggia le aspre montagne appenniniche italiane, è quella che il pensoso gigante sembra uscire dal laghetto, un effetto studiato ad arte dal Giambologna che ricoprì la figura di fango, licheni e, guarda caso, concrezioni calcaree.
Di sicuro, per il momento, è che la citazione passata per secoli sotto silenzio del Vasari ci dice che nella storia gloriosa dell’arte italiana del Rinascimento entra di diritto anche un pezzo, fondamentale, del patrimonio culturale di Terni.